Cosa c’è di meglio di un film sulla fine per celebrare l’inizio dell’anno?
Oslo, August 31th è la seconda opera del regista norvegese Joachim Trier (sì, lontano parente di quel Lars Von Trier…), debuttante nel 2006 con il film Reprise. Da Reprise c’è il ritorno di Eskil Vogt alla sceneggiatura, di Jakob Ihre alla fotografia e dell’attore Anders Danielsen Lie, stavolta però assunto a protagonista indiscusso della pellicola.
O forse no, perchè la città di Oslo incombe sin dall’inizio su Anders (il personaggio ha lo stesso nome dell’attore) e sugli spettatori, mostrata in varie sfaccettature, come i ricordi-flashbacks iniziali o attraverso i campi lunghi sui movimenti del protagonista.
Oslo e i suoi abitanti rimangono infatti una componente fondamentale: Anders è un tossicodipendente in riabilitazione, giunto quasi alla fine del suo lungo percorso di reintegro nella società norvegese. Il tentato suicidio che segue i flashbacks iniziali evidenzia però il contrario. Anders non si droga più ormai, ma è il futuro la sua preoccupazione maggiore ora. Non solo, rapporti mai sanati con la famiglia e con la ex ragazza Iselin (presente solo in foto o attraverso la voce della segreteria telefonica) contribuiscono ad appesantire sempre di più la sua condizione.
Tuttavia, come parte della suo percorso riabilitativo, ha diritto a un colloquio di lavoro per una rivista di intrattenimento. Anders prende un taxi e parte alla volta della città. Durante i suoi spostamenti nel corso del film viene inquadrato pensieroso, distante, a tratti calmo, vulnerabile o chiaramente depresso. La tremenda espressività di Lie ci restituisce un’ampia gamma di sensazioni.
Comincia così una lunga giornata, fatta di pensieri e di incontri importanti, come quello con l’amico Thomas (Hans Olav Brenner). Il loro rapporto è sincero e spontaneo: entrambi sono persone altamente intelligenti e il dialogo che ne deriva (la scena migliore del film) affronta le paure di Anders (il suicidio, la ricaduta) ma anche i dubbi di Thomas sulla famiglia e sulla noia della vita accademica. Anders non deve disperarsi: ha “cervello, famiglia e amici” per affrontare il suo rientro, può farcela. Thomas lo invita ad un party che si terrà la sera a casa di amici.
Nonostante l’interesse suscitato durante il colloquio con la rivista, la passata tossicodipendenza pesa ancora su Anders, il quale finisce per scappare in fretta e furia dal colloquio, andandosi a rifugiare in un caffè. Qui la telecamera si sposta dal protagonista per andare ad inquadrare gli altri clienti o i passanti (addirittura, in un paio di casi, seguendoli rapidamente nel corso della loro giornata). Due ragazzi a un appuntamento, un gruppo di amiche, discorsi frivoli o impegnati, in pratica uno spaccato della società di Oslo con i propri sogni e paure, che Anders osserva distaccato, rigorosamente da esterno, con il sorriso compiaciuto di chi sa quanto possa essere difficile vivere.
È in questa scena che si percepisce chiaramente la malinconia e la solitudine del protagonista. Una persona razionale, intelligente, che non riesce (e non vuole) ritornare parte di quella società che sta contemplando. Il successivo incontro con la compagna della sorella Nina aggrava di più la sua depressione, dato che la sorella preferisce non vederlo. Anders si avventura in un monologo sui genitori e sul loro carattere, mentre continua a passeggiare nella città.
La malinconia riappare preponderante nella festa a casa di Mirjam, la sua ex ragazza. Anche Mirjam non riesce ad abituarsi al futuro, all’invecchiamento, alle sue coetanee già alle prese con dei figli.
Anders non vuole avere scelte di fronte a sè, la sua strada è già segnata. Dopo un’altra chiamata a Iselin (ovviamente priva di risposta), ruba dei soldi e acquista dell’eroina. Il resto della serata trascorre nell’attesa dell’utilizzo di quella droga nascosta nella giacca. Quando cederà Anders? Le cose sembrano momentaneamente risolversi con la ragazza appena ventenne conosciuta quella sera: un rave party, alcolici e un giro in bicicletta per le strade deserte di Oslo. “I’m looking for sympathy. I want someone to feel sorry for me” le confessa lui.
Anders tuttavia sa che questo è solo un palliativo, un rallentare l’inevitabile. Mentre guarda con un sorriso beffardo gli altri che si divertono in piscina, il montaggio anticipa il suo viaggio di ritorno in solitaria a Fagerborg, dove si trova la casa della sua infanzia (in proncinto di essere venduta per ripianare i debiti).
È la mattina del 31 Agosto, la fine dell’estate: una giornata malinconica, perchè rappresenta la fine del periodo più spensierato dell’anno (soprattutto in gioventù). Nella casa, tra vecchie foto e scatoloni, un pianoforte sembra costituire l’ennesima ancora di salvezza, che Anders decide però di non utilizzare, così come lo era stato il colloquio o la ragazza della sera prima (d’altronde Iselin, la donna veramente più importante per lui, non ha risposto all’ennesima chiamata).
Il film si chiude con la telecamera che entra timidamente nella stanza di Anders, pronto ad iniettarsi l’eroina nelle vene, per poi spostarsi sui alcuni luoghi del film ormai deserti, come a simboleggiare l’universalità di questa storia, non solo di Anders o di qualche abitante di Oslo.
Una storia che lascia sentimenti contrastanti: è solo un ritratto malinconico di chi non riesce a trovare soddisfazione dalla propria vita? È possibile trovarla davvero? Dove? Nell’amore? Non c’è speranza dunque? Oppure questa speranza siamo noi stessi a distruggerla con il nostro atteggiamento ormai segnato?
Non credo che Trier volesse dare una risposta a queste domande, quanto mostrare una storia profondamente empatica in cui lo spettatore potesse vedere alcune conseguenze di una mentalità distruttiva. E fare le proprie scelte, così come Anders ha fatto:
If someone wants to destroy himself,
society should allow him to do so.
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Ottima recensione, il film però non mi ispira, ma lo sai che ho altri gusti ;P
“Se non è weird non lo vogliamo”